7,5

di Fabio Polvani

È facile coltivare il proprio talento quando gli inverni sono freddi, scuri e lunghi. Non c’è altra spiegazione al successo di numerosi artisti scandinavi che ormai da decenni riempiono le classifiche europee (l’Italia, come spesso succede, è rimasta ai blocchi di partenza) con album di gran qualità. Eivør Pálsdottir non è un volto nuovo: nel 2020 abbiamo celebrato il ventennale dal suo primo album omonimo. Da allora fino ad oggi l’artista delle isole Faer Øer ha scelto di farsi cullare da diversi generi, tra cui il jazz e la classical fusion, ma contaminati con la musica elettronica.

Si tratta di un’elettronica composta da sempre maggiori contrasti, proprio come quando la breve estate artica arriva quasi di colpo a illuminare con tutte le tonalità del verde un paesaggio altrimenti nebbioso e grigio. Paesaggio in cui la stessa Eivør si perse da bambina, non trovando più la strada di casa durante un’escursione in montagna.

Provate a immaginare di trovarvi in quella situazione e di sentire il bisogno di mettere in musica i vostri sentimenti: un’improvvisa oscurità, l’umidità che si fonde con il vostro sudore freddo, il senso di smarrimento; gli unici suoni che avvertite sono quelli della natura che si riprende il suo posto attorno a voi. E poi d’improvviso una luce, un leggero diradarsi del vapore e una strada che percorrerete con coraggio per ritrovare la sicurezza o, più probabilmente, voi stessi (“Electronics in the dark, electricity in the weather”).

Questo è il leitmotiv di Segl (tradotto “veleggiare”), il cui brano di apertura si intitola Mánasegl, un tipo di imbarcazione a vela utilizzata dai faroesi – guardacaso – per tagliare la foschia notturna.

Un disco quindi di emozioni forti e forti contrapposizioni, votato alla riscoperta del proprio io e della gioia di ritrovarsi alla luce dopo una lunga oscurità. “Skyscrapers” si chiude con una melodia che ci porta indietro fin quasi ai primi Eurythmics. “I wanna get beyond the skyscrapers”, come lasciarsi alle spalle il caos per ritrovarsi nella tranquillità della natura, seppur rigida – concetto ribadito in “This city” in cui “The air so cold, it tastеs like freedom/I’m leaving this city/I don’t know when I’ll be back”.

Rispetto ai dischi precedenti in questo Segl ci sono meno riferimenti al folklore artico: qualche eco di canti gutturali a cui Eivør ci aveva abituato in passato rimane in “Sleep on it” e nella riuscita collaborazione con Einar Selvik, leader dei Wardruna (altro gruppo scandinavo salito alla ribalta per aver composto praticamente tutta la colonna sonora della serie “Vikings”), in “Stirdur saknur” – che parla di perdita e cordoglio su una base di percussioni crepitanti.

Non è questo l’unico duetto dell’album: “Only love” con il musicista islandese Ásgeir, che si apre con una schiera di archi profondi su una base molto emozionale, è la moderna versione artica di “Don’t give up” di Peter Gabriel e Kate Bush: un lungo abbraccio musicale che scalda il cuore quando fuori è tutto sotto zero. Kate Bush è da sempre l’artista alla quale Eivør si ispira maggiormente dal punto di vista vocale; la sua notevole estensione si fa sentire anche in questo ultimo lavoro, particolarmente nello spinto pop-rock di “Nothing to fear” (senza mai arrivare però a picchi del passato come nella sorprendente “Boxes” del 2012).

Un disco anche d’amore (“Hands”), che si chiude con “Gullspunnin”, traducibile più o meno come “trovarsi avvolti come un bozzolo nell’oro”: momento più intimo di un album viscerale, ricco di contrasti, che guarda al futuro con ottimismo e lo fa con l’estrema gentilezza e qualità a cui solo gli artisti scandinavi ci hanno saputo abituare.