7,5

di Fabio Polvani

La fase dandy, quella in cui fai attenzione a non sporcare i mocassini nuovi. La fase paparino sexy, quando sbottoni i polsi della camicia e inizi a tirarti su le maniche perché il locale sta diventando troppo caldo lasciando intravedere un tatuaggio sull’avambraccio. La fase alcolica, in cui non ti fai mancare un calice di bianco di troppo e inizi a perdere lucidità. La fase sbronza, in cui ti dimeni sulla pista come un forsennato e ormai la camicia è completamente fuori dai pantaloni. Infine la fase sfatta, in cui sudato come un pollo in rosticceria cerchi di ricomporti e ricordarti che cosa hai fatto nelle ore precedenti.

Ecco, in queste fasi è riassunta tutta l’estetica di Matt Berninger, che parte come un Walter White qualunque e va a finire che ti confeziona la migliore anfetamina che tu abbia mai provato. Guardare il video di “One last second” per credere.

Serpentine prison” è il suo primo disco solista, che i fan dei the National – nemmeno tanto segretamente – aspettavano da vent’anni e che arriva nel mercato discografico a poca distanza da “Folklore” di Taylor Swift, confezionato a perfezione da Aaron Dessner, l’altra anima del gruppo di Cincinnati. Entrambe prove di grande maturità artistica che non fanno altro che confermare i the National come la più autorevole band degli anni ’10.

Eppure per molti aspetti questo disco si distingue dal lavoro di gruppo. Merito anche della produzione di Booker T. Jones (che con il suo hammond lucida tutto quello che gli passa sotto le mani, dai tromboni alle palle da biliardo) e dei violini inconfondibili di Andrew Bird. L’iniziale “My eyes are t-shirts” si sviluppa su una base ricca di effetti evocativi, su cui la voce profonda di Matt Berninger ricama con ironia e sentimento. Con “Distant axis” le cose si fanno più articolate: l’incedere – qui sì – ricorda i the National di “Trouble will find me”. Il miraggio però dura poco, perché poi arriva quella “One more second” che sa di whisky e lacrime, e di un uomo scaricato per chissà quante volte.

Il cambio di passo arriva con “Loved so little” e le sue aperture blues à la Jorma Kaukonen per poi dare il colpo di grazia con “Silver springs”, duetto con la rediviva Gail Ann Dorsey. “Everyone knows where to hang, but they never show you the ropes”. E pare di affondare disarmati in una poltrona sfondata, di quelle che ogni tanto trovi nei locali e che sembrano buttate lì da una vecchia signora con la casa infestata dai gatti.

Quando arriva “Oh dearie” spunta anche Baudelaire che ti versa l’assenzio. Poi tocca a “Take me out of town”, in cui arriva finalmente un barlume di sobrietà insieme alla richiesta disperata di finire la serata di devastazione: “I’ve never been so burned out, Gonna lose it any minute”.

Collar of your shirt” tesse trame delicatissime e “All for nothing” prosegue nella stessa direzione, aprendosi sul finale in un ensemble ancora inedito. Chiude “Serpentine prison” il brano omonimo, che ricompone il puzzle e riporta Matt Berninger sul percorso fin qui intrapreso con i the National.

La sbornia è ormai passata ma l’hangover ha il sapore dolce e appiccicoso di una notte brava passata ad affogare nell’alcol le delusioni. Matt Berninger è roba da intenditori. Proprio come quel famoso brandy della pubblicità.