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di Fabio Polvani

Sembrano passati secoli da quando Miley Cyrus si lanciava poco vestita sulla palla da demolizione che guidava nel video di Wrecking Ball. Dopo molte sperimentazioni e infinite trasformazioni il 2020 ha portato per la ex Hannah Montana la maturità artistica, ottenuta senza snaturarsi ma pescando il meglio da ogni sua precedente incarnazione.

Wtf do I know è puro power pop nello stile di Fly on the wall: Miley stava uscendo dall’adolescenza con una ribellione che presto l’avrebbe fatta cadere ai limiti del buon gusto con “Bangerzz”, un album eccessivo e qualitativamente scarso (se si esclude una manciata di pezzi). Plastic hearts, la traccia che dà il titolo all’album, ricorda fin troppo da vicino Bruno Mars e la sua Locked out of heaven, ponendosi nello stesso filone di pop-rock da classifica.

Il tono cambia con la splendida ballata Angels like you: un esercizio convincente che riporta la nostra a metà strada da Dolly Parton e Courtney Love, riprendendo la buona scrittura rimasta ai tempi del rinnegato “Younger now”.

L’aspetto commerciale di questo Plastic Hearts è ben rappresentato dal duetto con Dua Lipa creato ad hoc per cavalcare le mode del momento. Poteva essere un disastro e invece funziona bene, anche se non raggiunge le vette della solida Midnight Sky, scelta come primo singolo e rimasta per mesi in cima alla programmazione musicale delle radio di mezzo mondo. Risultato che Miley non otteneva dai tempi della già citata Wrecking Ball. Nel mezzo, due esercizi rock che spiazzano e per questo motivo arricchiscono il disco e non lo fanno sembrare simile a niente prodotto in precedenza: Gimme what I want e il duetto inaspettato con Billy Idol in Night crawling, che sembrano usciti da un film tardo anni ‘80 (e che suonano tremendamente moderni).

High e Never been me riprendono il filone della ballata e anche stavolta il risultato è consistente: finora la voce di Miley Cyrus è stata precisa e potente come raramente dimostrato con tanta costanza. Hate me parte con una chitarrina psichedelica (lontanissima eco delle ormai antiche collaborazioni con i Flaming Lips) e rappresenta il lato più pop e giocoso del disco. Bad karma invece è un altro colpo di genio: duetto con Joan Jett, anche lei ripescata direttamente dagli anni ‘80, propone sonorità “sexy-rock” che rimandano direttamente ai Big Pig di Breakaway. Golden G string aggiunge poco a quanto di buono proposto finora.

A chiudere il disco come bonus una sorta di mash-up tra Midnight Sky e Edge of Seventeen della nuova musa di Miley, quella Stevie Nicks la cui presenza aleggia su tutte le cantautrici di nuova generazione, e due episodi dal vivo che avevamo già apprezzato su Youtube e che sono stati inseriti nel disco sull’onda delle visualizzazioni: le cover di Heart of Glass di Blondie e di Zombie dei Cranberries, eseguite dal vivo per due diversi eventi radiofonici. La voce della Cyrus è più graffiante che mai e centra il bersaglio in più punti, anche laddove l’impresa si dimostra titanica (toccare Dolores O’Riordan è un lusso che ormai ti puoi permettere solo se sei un vero numero uno).

Riassumendo, “Plastic hearts” è un disco solido, che trova Miley Cyrus al meglio delle sue capacità artistiche ottenute finalmente senza eccessi ma prendendo il meglio di quanto ha prodotto finora, con risultati altalenanti. Siamo ancora lontani dal poterlo definire “disco della consacrazione” ma ad oggi è sicuramente il suo album più riuscito.